Marcello Mottola
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Posted - 11 settembre 2013 : 22:21:30
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Dura la vita degli storici dell’arte. Soprattutto se lo siete a Napoli. Una ricerca che in un posto qualsiasi, in cui le cose funzionano diciamo bene, può essere svolta, per esempio, in un mese, a Napoli si svolgerà mediamente in sei, sette mesi o forse di più. Il malfunzionamento, l’apatia, la lentezza, la disorganizzazione delle istituzioni che spesso e volentieri si scaricano le responsabilità a vicenda in un valzer interminabile di competenze rimandate di ufficio in ufficio, e continuamente riassegnate in base alle circostanze, possono indurre anche i migliori a desistere.
Un problema che mi colpisce particolarmente è l’enorme difficoltà che si incontra nel momento in cui si necessita, semplicemente, di entrare in una chiesa. Napoli è notoriamente una delle città con più chiese al mondo; ne possiede così tante che, di alcune, a volte, perfino gli stessi cittadini ne perdono memoria, e vi può capitare che mentre cercate una chiesa, ne troverete nelle prossimità altre cento. Si perdono nei meandri dei vicoli ripidi e stretti, spesso dietro cancelli serrati e scrostati dal tempo, mute dietro i loro portoni, dimenticate e ignorate. Già nel 2000 la Soprintendenza dei Beni architettonici e ambientali ne contava ben 165 chiuse. Qui chiuse coincide spesso con abbandonate, non tutelate, trafugate. Insomma condannate a morire, lentamente. Nel lavoro di ricerca, dunque, uno storico dell’arte si scontra con questo enorme problema, con la giurisdizione della Curia, ma anche con quella comunale, con le infinite difficoltà burocratiche e logistiche. Oggi le chiese negate al pubblico non si contano: San Marcellino e Festo, Sant’Agostino degli Scalzi, Santa Maria Donnaromita, San Severino e Sossio, la Chiesa di Gesù e Maria, Santa Maria di Costantinopoli, Santa Maria di Portosalvo, Santa Maria della Vittoria all’Anticaglia, San Biagio all’Olmo e si potrebbe continuare per molto. Viste da fuori sembrano ruderi, facciate inglobate nel degrado urbano; calcinacci cadenti, mura sbrecciate, vernici annerite dal tempo. Ma dentro lo scenario è forse ancor peggio. Tele, sculture, marmi, altari lasciati a putrefare e marcire, cappelle che diventano depositi di detersivi e cartoni, sporcizia, polvere e incuria.
Santa Maria della Speranza, chiesa del XVI secolo ubicata nei famosi Quartieri Spagnoli che conserva uno splendido altare seicentesco, capolavoro di Cosimo Fanzago, una tela di Cesare Fracanzano e ancora altri tesori, da anni è inaccessibile. Per riuscire ad entrare bisogna mettersi in contatto con l’Ufficio dei Beni culturali della Diocesi di Napoli e richiedere un permesso, indicando i motivi precisi per cui si desidera entrarci. Solo dopo aver approvato la richiesta, l’Ufficio fornisce i contatti di chi al momento si occupa della gestione della chiesa in questione. Così, dopo una lunga trafila (in cui i mesi saranno trascorsi) si riesce a “sfondare” le porte della tanto sospirata chiesa.
Attraversando piazza Cavour ci si imbatte nella splendida facciata della Chiesa di Santa Maria del Rosario alle Pigne, capolavoro di Arcangelo Guglielmelli. La gradinata, proprietà ormai di qualche assonnato clochard, è coperta di immondizia, cartoni, vetro in frantumi. La chiesa, ottimo esempio di architettura barocca (maestosa la scalinata interna a doppia rampa, su modello delle scalinate del Sanfelice) è ormai sede di uffici comunali e tutto ciò che vi era all’interno, tra cui numerose tele di Luca Giordano, è stato rimosso, qualora non trafugati. Restano pochi marmi e l’altare, evidentemente di difficile smercio. La chiesa è chiusa dal terremoto del 1980 e da circa trent’anni non apre i battenti.
Chiesa di Gesù e Maria. Altro incredibile oltraggio al patrimonio e al senso di etica e civiltà. Quella che fu una chiesa del XVI secolo, rimaneggiata da Domenico Fontana, è oggi un cantiere di non meglio definiti materiali accantonati sul pavimento maiolicato. Macerie, marmi, cemento: c’è da credere che la chiesa sia stata colpita da un funesto terremoto. Ma non può essere il terremoto dell’80! E invece sì. Da trent’anni le condizioni del complesso architettonico sono quelle, deplorevoli, che si vedono ancora oggi. All’interno si trovano opere importanti come le decorazioni di Giovanni Bernardino Azzolino, gli affreschi di Belisario Corenzio e l’altare maggiore di Dioniso Lazzari, quasi del tutto depredato, come pure i marmi rossi delle balaustre.
Il 23 settembre del 2009 sprofondava il pavimento della chiesa di San Carlo alle Mortelle, autentico gioiello barocco nel cuore dei Quartieri Spagnoli. Oggi la struttura appare ancora così per mancanza di soldi, di****: buia, muta e polverosa con un’enorme voragine, come un ventre sfondato, ennesima crepa di questa Napoli che crolla poco a poco.
In occasione del “Maggio dei Monumenti” sono state spalancate le porte di molte chiese, ma spesso solo per renderne noto il degrado, come nel caso di San Giovanni Maggiore a Pignatelli, di cui già Francesco Caglioti, ordinario di Storia dell’Arte all’Università Federico II di Napoli, diceva: «È il frutto di un’incuria pluridecennale. Dopo anni di furti e abbandono, ora abbiamo un restauro volenteroso, costato dieci, cento volte più di una normale manutenzione. Risultato: San Giovanni Maggiore è un guscio semivuoto, manca il 90% degli arredi, rubati di recente. Negli ultimi 30 anni, racconto ai miei studenti, Napoli ha distrutto più di quanto abbia fatto nei 5 secoli precedenti» (Il Giornale dell’Arte, luglio 2012).
E proprio al problema, urgentissimo, delle chiese in rovina, è dedicata la mostra L’anima del tempo. Chiese napoletane: rovine e recuperi ospitata in questi giorni nel chiostro grande del complesso dei Girolamini (da poco riaperto al pubblico, grazie al lavoro e alla volontà del soprintendente Fabrizio Vona e del conservatore del monumento, Umberto Bile): dodici chiese napoletane immortalate dall’occhio di Massimo Listri, tra cui Santa Maria del popolo agli Incurabili, Sant’Aspreno ai Crociferi, San Giuseppe delle Scalze, Santa Maria della Scorziata. Scatti che documentano quanto in questi anni Napoli abbia rinunciato alla propria bellezza. Navate distrutte, cappelle sommerse da macerie e spazzatura, pavimenti e marmi trafugate alla meno peggio. È singolare che in molte chiese le foto siano proibite, non per questioni legate a norme ed autorizzazioni ecclesiastiche, ma «perché sono sempre più frequenti i furti su commissione». È quanto mi sento rispondere da un addetto, al che penso: «Fino a che punto di inciviltà possiamo spingerci?».
Si potrebbe continuare a parlarne per giorni, ma le cose non cambierebbero, e non cambieranno fino a quando la Soprintendenza non deciderà di porre fine a questo strazio per gli occhi e per l’anima. Innanzitutto c’è urgente bisogno di individuare tutte le chiese chiuse e in degrado, farne una mappatura, un censimento che permetta di focalizzare gli obiettivi e le priorità, lavoro in cui potrebbero essere coinvolti molti giovani laureati in storia dell’arte. In seconda analisi si rende necessario un aggiornamento degli orari on line di apertura delle chiese (che già esistono, ma spesso e volentieri non sono attendibili) così da permettere a chiunque, storici o semplici cittadini amanti del bello, di entrare nelle chiese senza doversi sottoporre a ore di appostamenti.
E non serve a nulla proporre l’esclusione del centro storico della città dall’Unesco, proposta avanzata proprio in questi giorni da numerose associazioni partenopee che proclamano a gran voce che la città non merita tale onorificenza, pertanto «è meglio che si faccia da parte», criterio sbagliatissimo di guardare al problema, non solo perché lo aggira senza affrontarlo davvero, ma ammette un fallimento e infonde un messaggio sbagliato di disincantata e amara rassegnazione, quando ciò che si dovrebbe fare, con urgenza e disperatamente, è fare in modo che la città con uno dei più grandi e ricchi patrimoni artistici al mondo lo diventi, degna e meritevole. Cambiare meccanismi e mentalità innestate da anni e anni di abitudine, pigrizia e a volte stanchezza non è facile e troppo spesso l’abuso ozioso della formula ritrita del lasciapassare ha generato questo tipo di degrado e abbandono, ma penso spesso alle parole di Pasquale Villari, uno dei grandi padri della questione meridionale:
- Ma non vedete che ci vuole un secolo? - Sì, lo vedo, ma vedo ancora che se cominceremo domani, ci vorrà un secolo ed un giorno. (Pasquale Villari, Lettere meridionali, 1875).
(tratto da STORIE DELL’ARTE. un blog di storici dell’arte. di ALESSANDRA DE LUCA) |
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